La lunga strada degli orsi
Dopo milioni di anni di evoluzione l’orso dell’Appennino si muove all’ombra dei suoi antenati
Gli orsi hanno avuto una storia evolutiva molto complessa e non sempre facile da “decifrare” considerando i frequenti incroci avvenuti tra i progenitori degli animali attuali.
La filogenesi degli orsi è stata tracciata attraverso la paleontologia (studio dei resti fossili) e la genetica (studio del DNA mitocondriale e del patrimonio genetico o genoma). Gli orsi viventi hanno progenitori relativamente recenti, ma per ricostruire la loro storia è necessario retrocedere di diversi milioni di anni, fino alla sottofamiglia Hemicyoninae e in particolare al genere Cephalogale. Questo gruppo comparve per la prima volta in Eurasia durante l’Oligocene medio, circa 30 milioni di anni fa, da un ramo distaccatosi dalla linea da cui hanno avuto origine gli odierni canidi. I primi rappresentati di questo genere erano soprattutto animali di dimensioni molto piccole, inferiori ad una volpe per intenderci, anche se alcune specie raggiunsero dimensioni confrontabili a quelle degli orsi moderni. È da questo genere, nel corso del Miocene, ovvero circa 20 milioni di anni fa, che sarebbero derivati i primi ursidi. Questi animali, appartenenti al genere Ursavus, si diffusero progressivamente nel continente asiatico, in Nord America ed in Europa, dando origine a tutti gli orsi attuali e ai loro innumerevoli predecessori. La prima linea a distaccarsi è stata quella della sottofamiglia Ailuropodidae (circa 15 milioni di anni fa), a cui appartiene oggi il panda gigante (Ailuropoda melanoleuca). Successivamente, tra i 6-13 milioni di anni fa, si è verificata una seconda scissione da cui si sono originate altre due sotto famiglie: la Tremarctinae e la Ursinae. Dalla prima sono derivate diverse specie di orso che hanno proliferato in Nord America, ma di cui l’unico sopravvissuto oggi è l’orso dagli occhiali (Tremarctos ornatus), diffuso in Sud America.
I GRANDI PREDATORI ESTINTI
Prima dell’era glaciale, numerosi orsi appartenenti alla famiglia Tremarctinae hanno prosperato in Nord America per poi estinguersi. Trai più noti, è l’orso dalla faccia corta (Arctodus simus), un essere gigante che poteva pesare almeno 650 kg e arti lunghi fino a 2 metri da terra. A. simus era molto più veloce rispetto agli orsi bruni moderni e poteva raggiungere tranquillamente i 90 km orari. Insieme all’orso polare, è uno dei pochi orsi completamente carnivori, come è stato ricostruito dalla forma dei denti (presenti ancora di denti ferini) e della struttura del cranio e considerato tra i più potenti predatori del pleistocene di bisonti, cervi, cavalli e bradipi. (© Roman Uchytel – Prehistoric Fauna)
Per quanto riguarda la sottofamiglia Ursinae, a partire da un comune progenitore che ha fatto la sua comparsa circa 4-5 milioni di anni fa, Ursus minimus, si è distaccato un primo ramo che ha dato origine a tre specie di orsi oggi viventi nel continente asiatico: l’orso tibetano (Ursus thibetanus), l’orso labiato (Ursus ursinus) e l’orso malese (Ursus malayanus). Successivamente, circa 3.5 milioni di anni fa, è sorta una seconda linea che, in Asia e Nord America, ha dato origine all’orso nero (Ursus americanus). Circa 1 -2 milioni di anni fa da un progenitore comune, chiamato Ursus etruscus, si sono invece sviluppati il ramo “morto” degli orsi delle caverne, tra cui il noto Ursus spelaeus, e quello da cui sono derivati l’orso polare (Ursus maritimus) e l’orso bruno (Ursus arctos). Il più antico fossile di orso bruno è stato rinvenuto in Cina circa 0,5 milioni di anni fa per poi diffondersi in Asia, Europa e a Nord dell’Africa. Fossili di orso bruno sono stati rinvenuti anche in Gran Bretagna. L’orso bruno ha fatto la sua comparsa in Alaska circa 100.000 anni fa, per poi diffondersi più a sud non prima di 13.000 anni fa. Già a partire dalla separazione dall’orso polare, gli orsi bruni si sono diversificati in almeno 6 lignaggi, o cladi, molti dei quali sono sopravvissuti fino ad oggi, come risultato di processi di isolamento all’interno di rifugi creatisi durante l’era glaciale.
Filogenesi della famiglia Ursidae e diversificazione dell’orso bruno nei suoi cladi (gruppi che derivano da antenati comuni) in base alle analisi del DNA mitocondriale in Europa, Asia e Nord America. Le frecce indicano come ancora oggi siano presenti scambi “genetici” tra diverse specie di orsi. I cladi si sono originati a seguito dell’isolamento avvenuto durante l’Era Glaciale. Le ricerche sono ancora in corso e si attendono molti aggiornamenti, soprattutto per quanto riguarda i cladi 5 e 6. Uno studio recente ha rilevato che gli orsi iraniani formano un gruppo distinto.
L’orso è l’unico carnivoro di grossa mole dalla dieta prevalentemente vegetariana.
L’evoluzione degli ursidi è caratterizzata da una specializzazione verso una alimentazione su piante erbacee e frutta. Fanno eccezione l’orso polare e qualche altra specie estinta, a dieta prettamente carnivora. Nell’orso, la transizione da carnivoro a onnivoro con una particolare predilezione per il cibo vegetale è caratterizzata da un allungamento dei molari e dal passaggio da una masticazione trasversale a sagittale, che gli ha conferito più forza e capacità nel triturare. Le prime evidenze della comparsa di una dieta onnivora nella linea evolutiva degli orsi risalgono al Miocene (circa 15–12.5 milioni di anni fa), grazie al ritrovamento di resti ossei di Aurorarctos tirawa in Nord America, uno degli orsi “originali” e contemporaneo a Ursavus.
I GRANDI ERBIVORI ESTINTI
Ursus spelaeus, diffuso quasi esclusivamente in Europa, era tra i più grossi carnivori dell’Era Glaciale (fino a 1000 kg e 3 metri di altezza), sebbene il più vegetariano, come si evince dall’esame della dentatura fossile (riduzione dei denti ferini e premolari, sviluppo di un diastema, e amento della superficie trituranti dei denti molari) e dalla analisi della dieta con tecniche isotopiche basate sui resti ossei, che confermerebbero anche l’abitudine svernante del plantigrado. Non è stata trovata ancora una valida spiegazione sulle possibili cause di estinzione. Alcuni autori riconducono questo evento ai cambiamenti climatici alla fine del Pleistocene (clima più freddo e secco), che avrebbero portato anche alla scomparsa di altri grandi mammiferi come il cervo gigante o il leone delle caverne. Altri ritengono che gli uomini primitivi colonizzando le loro “grandi” caverne invernali, li avrebbero condannati a inverni lunghi e senza cibo.
In genere, nei mammiferi carnivori come i canidi ad esempio, maggiori sono le dimensioni di una specie maggiore il consumo di carne. Secondo diversi studiosi, negli orsi la transizione anatomica avvenuta nella masticazione si è unita alla loro peculiare capacità di ibernarsi. Questo è un adattamento peculiare degli orsi per superare i limiti ecologici imposti dalla grande taglia corporea, ovvero la necessità di ingerire una notevole quantità di cibo, facendo fronte alle fluttuazioni stagionali di disponibilità delle risorse o ai drastici cambiamenti climatici che hanno accompagnato l’evoluzione di questi animali. L’ibernazione è un adattamento che sembra essere comparso nel Miocene come scelta facoltativa negli orsi, in funzione delle latitudini occupate e della presenza o meno di inverni nevosi. I due ursidi attualmente viventi che non svernano hanno avuto origine durante il Pliocene nei climi della zona temperata medio-bassa del Continente americano (orso dagli occhiali) e del Subcontinente indiano (orso labiato), con la comparsa di climi più freddi e secchi e precipitazioni a carattere piovoso molto stagionali. Ma è durante le glaciazioni del Pleistocene, nei climi freddi e artici delle zone temperate, che la forte stagionalità ha reso obbligatorio trascorrere l’inverno in uno stato di dormienza, come si verifica ancora oggi in gran parte degli orsi viventi.
ALL’ORIGINE DEL LUNGO SONNO
Lo studio di resti fossili di un orso di medie dimensioni, Protarctos abstrusus, ritrovati nel bacino fossile di Beaver Pond nell’Artico, ha dato vita a ipotesi sulla comparsa dell’ibernazione nella linea evolutiva degli orsi. Questa specie viveva nelle foreste boreali del Pliocene (circa 3-4 milioni di anni fa), contemporaneo del genere Ursavus, e non ha lasciato nessuna discendenza vivente. P. abstrusus aveva una dentizione ancora poco specializzata per una dieta erbivora, tuttavia la presenza di carie conferma il frequente consumo di zuccheri. Ricostruendo la vegetazione di quell’epoca, P. abstrusus doveva fare un consumo elevato di bacche di Empetrum nigrum. La sua dieta sembrava mirata ad accumulare grasso, probabilmente in associazione ad una vita sedentaria durante l’inverno. Potrebbe essere stato il primo orso a ibernare. In base a questo scenario evolutivo, gli orsi moderni che non svernano potrebbero avere perso questa capacità secondariamente, come adattamento a climi più caldi. (© Roman Uchytel – Prehistoric Fauna)
L’analisi del DNA mitocondriale (che viene trasmesso esclusivamente per linea materna) ha consentito di ricostruire le principali linee filetiche di orso bruno in Europa, ovvero di classificare gli orsi in gruppi di popolazione geneticamente distinti fra loro. Ne è derivato un albero molto complesso, fatto di cladi e sotto cladi. Per semplificare, in Europa si distinguono tre linee principali: una linea orientale presente in Romania, Slovacchia, Estonia, Finlandia, e Svezia settentrionale; una linea nord-occidentale presente nei Pirenei, Norvegia e Svezia meridionale; una linea sud occidentale diffusa su Alpi, Appennini, Balcani, Grecia, Bulgaria e Romania. I primi fossili di orso bruno sono stati rinvenuti in Italia circa 7000-5500 anni fa, quando la distribuzione dell’orso si estendeva probabilmente con continuità su tutta la Penisola.
L’orso bruno in Appennino è unico dal punto di vista genetico, morfologico e comportamentale
Lo zoologo Paolo Ciucci ci racconta della straordinaria storia del genoma degli orsi dell’Appennino. Attraverso la mappatura del DNA, i ricercatori stanno scoprendo i punti deboli e quelli di forza di questa piccola popolazione.
Studi recenti hanno evidenziato l’unicità del DNA mitocondriale dell’orso in Appennino, sebbene sia stata riscontrata una affinità con la linea sud occidentale alpino-balcanica. Questa apparente contraddizione viene risolta da una ricerca condotta su tutto il genoma, da cui è emerso che la popolazione di orso bruno marsicano è rimasta completamente isolata da questa linea da oltre 3000-4000 anni.
L’isolamento, associato ad una progressiva riduzione numerica, sembrerebbe essere iniziato già a partire da 8000 anni fa, con un drastico aumento a partire da 600 anni fa e fino a tempi più recenti. Senza dubbio, l’aumento numerico della specie umana, la deforestazione associata allo sviluppo agricolo, e la mortalità diretta causata dall’uomo stesso sono stati determinanti per il declino numerico e riduzione nella distribuzione della popolazione di orso. L’isolamento riproduttivo e genetico in popolazioni ridotte numericamente, se anche amplificato da fenomeni di adattamento a condizioni ambientali locali, può determinare profonde modifiche negli individui, non solo genetiche, ma anche morfologiche e comportamentali. Ed è quello che è successo all’orso in Appennino. Gli orsi appenninici hanno infatti una struttura cranica completamente divergente dagli altri orsi bruni, maggiori adattamenti fisiologici ad una dieta vegetariana e un’indole molto più pacifica. Le divergenze osservate, come già intuito dal naturalista e zoologo Giuseppe Altobello nei primi anni ‘20 del secolo scorso, inducono molti studiosi a considerare l’orso in Appennino una sottospecie unica, ovvero Ursus arctos marsicanus.
Crani di orso delle caverne, Ursus spelaeus, (a sinistra) e di orso appenninico, Ursus arctos marsicanus, (a destra) a confronto.
La popolazione appenninica è caratterizzata da una bassa diversità genetica e da alti livelli di consanguineità e una considerevole diminuzione della dimensione effettiva della popolazione (il numero di individui riproduttori, ovvero da cui verranno generati nuovi individui). Tutti elementi che possono contribuire a ridurre la sopravvivenza, la capacità di riproduzione e di adattamento di questi orsi.
La storia genomica dell’orso in Appennino desta molte preoccupazioni per lo stato di salute di questa popolazione sebbene abbia contribuito a renderlo unico in termini di adattamenti.