L’Appennino dell’orso
L’intreccio millenario tra storia umana e naturale
che ha creato un variegato mosaico ambientale e preziosi rifugi di wilderness
Per poter vivere l’orso bruno ha necessità di muoversi liberamente attraverso grandi spazi, di trovare zone tranquille dove riposare e, a seconda delle stagioni, di poter accedere a una notevole varietà di risorse alimentari.
L’Appennino Centrale è tra le poche aree rimaste in Italia ancora in grado di offrire al plantigrado tutto ciò di cui ha bisogno. Le aspre montagne carbonatiche della regione, incise da valli lunghe e profonde e soprattutto le grandi foreste, di faggio su tutte, hanno permesso all’orso di sfuggire all’estinzione e di sopravvivere sino al presente. Lo stato di naturalità e la ricchezza degli ambienti salvaguardati all’interno dei confini delle aree protette appenniniche, come il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise ad esempio, è ormai celebre e sinonimo di natura integra e selvaggia anche a livello internazionale. Ma l’apparente selvaticità di questi luoghi non deve trarre in inganno: ad esclusione di pochissime aree, si tratta in gran parte di una wilderness, per così dire, “secondaria”, ovvero tornata ad un alto livello di naturalità solamente negli ultimi 50-60 anni. Ciò è avvenuto sicuramente grazie alle misure di conservazione intraprese, ma soprattutto a seguito di profondi stravolgimenti socio-economici nella regione e dell’abbandono delle attività di sfruttamento tradizionali praticate per secoli su queste montagne.
Agli inizi della primavera un orso dell’Appennino si aggira nei pressi di un’antica masseria in rovina. Gran parte dell’areale di questo animale è oggi rappresentato da ambienti originati da successioni secondarie, ovvero tornati ad una certa naturalità in seguito all’abbandono da parte delle tradizionali attività di sfruttamento del territorio.
Le prime tracce della frequentazione umana in Appennino Centrale risalgono a 500.000 anni fa, ben prima, quindi, di quelle relative alla presenza Homo sapiens nel nostro paese, che sono databili a circa 40.000 anni fa.
Ma è solo a partire da 7-8.000 anni fa, ovvero dal Neolitico, che iniziano le prime sostanziali modifiche dell’ambiente, in particolare con l’avvento della pastorizia e dell’agricoltura. Dopo decine di migliaia di anni trascorsi praticando quasi esclusivamente la caccia, specialmente itinerante, la pesca e la raccolta dei prodotti spontanei della terra, per la prima volta nella storia i nostri antenati entrano per certi versi in “competizione” con la natura selvaggia e i suoi abitanti più ingombranti. Per creare pascoli per le proprie greggi e campi da coltivare, con il fuoco e la scure, le genti del Neolitico si sono aperte un varco sempre maggiore nella folta vegetazione primigenia. In questo modo sono stati disboscati in modo quasi permanente i crinali e i fianchi delle montagne e il fondovalle, creando le vaste e brulle praterie secondarie così tipiche del paesaggio appenninico. In questo stesso periodo, il territorio dell’Italia centrale vede l’arrivo di nuovi animali domestici e delle prime varietà di piante coltivabili. Per difenderli, l’uomo deve far fronte ai grandi predatori ed erbivori presenti nella regione. Con l’avvento di uno stile di vita maggiormente stanziale e della nascita dei primi insediamenti abitativi, a tutto questo si è presto aggiunta la costruzione di strade e infrastrutture, ovviamente ampliate, migliorate e “messe a sistema” durante l’epoca italica e, soprattutto, romana. In questa fase storica la popolazione umana cresce considerevolmente e nascono i primi importanti centri urbani, anche nelle aree più interne. Nei primi secoli dopo Cristo il territorio dell’Appennino Centrale, dall’entroterra sino alle coste, è attraversato da una rete viaria complessa; esso risulta parcellizzato e gestito in modo estremamente organizzato dagli emissari del governo romano. Tutto questo, ovviamente, a scapito delle aree boschive e selvagge, quindi delle zone più idonee alla sopravvivenza della grande fauna selvatica.
Un gregge di pecore pascola all’ombra dei resti dell’antica Grancia di Santa Maria del Monte nel Massiccio del Gran Sasso. Fondata dai monaci cistercensi nel XIII secolo, questo monastero d’alta quota è rimasto in funzione fino alla fine del XVI Secolo, quando l’inasprimento delle temperature invernali dovuto alla Piccola Era Glaciale ha costretto i monaci ad abbandonarla.
Ciononostante, questa epoca particolarmente florida per i nostri antenati è destinata a vita breve. Nel Medioevo, infatti, si assiste in qualche modo ad un passo indietro. Dopo il crollo dell’Impero romano e con l’arrivo nella Penisola di popolazioni di origine centro-europea, apportatori di una cultura e di un’economia maggiormente incentrate sullo sfruttamento dell’ambiente forestale, vengono abbandonate molte aree coltivate, con il ritorno prepotente di boschi e foreste su tutto l’Appennino. Mentre guerre, epidemie e carestie decimano la popolazione, in un territorio sempre meno abitato, le genti colonizzatrici tornano a praticare estensivamente la caccia e un allevamento del bestiame a carattere semi brado, importando nel territorio particolari modalità di conduzione forestale.
Faggi secolari nel Bosco della Difesa di Pescasseroli, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. La forma tipica a candelabro di questi alberi è dovuta alla pratica della capitozzatura, che permette una maggiore produzione di rami, fronde e frutti.
Tra queste, spicca la cosiddetta gestione a “difesa”, di cui si hanno molti esempi nella regione (si vedano, ad esempio, la bella Difesa di Pescasseroli e quella di Opi, nell’alta Val di Sangro, o il Bosco di S. Antonio nel comprensorio della Maiella). Le difese sono di solito localizzate in prossimità dei centri abitati. Si tratta di tipici pascoli arborati, di utilizzo comunitario, dove il bestiame è lasciato pascolare tra alberi secolari, in particolare di faggi, querce o alberi da frutto. Queste grandi piante vengono ripetutamente potate, “capitozzate” in gergo, per produrre un maggior numero di rami e, a loro volta, di fronde e frutti con cui sono alimentati gli animali domestici, in particolare al termine della buona stagione. Seppur di origine artificiale, oggi, le faggete a difesa sono ambienti strutturalmente molto vari e habitat importantissimi per molte specie, da quelle che cercano rifugio nel cavo dei vecchi tronchi a quelle che riescono a vivere esclusivamente sotto una volta forestale non del tutto chiusa. Esse sono pertanto fondamentali per la salvaguardia della biodiversità appenninica e, naturalmente, anche dell’orso, che le frequenta in molti periodi dell’anno e specialmente nelle annate di produzione di faggiola.
In questa intervista, Aurelio Manzi, etnobotanico e profondo conoscitore dell’Appennino Centrale, illustra le fasi più salienti della storia del paesaggio di questo territorio e di come essa sia legata alle vicende dell’orso.
Alla fine del Medioevo, in tutto l’Emisfero settentrionale, una diminuzione sempre più marcata delle temperature dà inizio alla cosiddetta Piccola Era Glaciale. Questo periodo di clima particolarmente rigido perdura sino al XIX secolo, influenzando fortemente la distribuzione e le attività umane nel comprensorio appenninico. Le temperature fredde e gli inverni estremamente lunghi determinano una diffusa e forte richiesta di abbigliamento e coperture adatti: la lana diventa quindi uno dei prodotti al centro dell’economia e fattore scatenante della grande epopea della transumanza. È in questi secoli che si assiste al massimo sviluppo dell’industria armentizia nella regione, con centinaia di migliaia di capi di ovini che, percorrendo annualmente gli antichi tratturi, vengono condotti dai verdi pascoli montani appenninici alle aree di svernamento situate lungo le coste e nelle pianure del nord della Puglia, in particolare. Se da un lato la prosperosa economia legata all’allevamento della pecora ha consentito, seppure per poche famiglie, un rifiorire della cultura e dell’economia dopo secoli di incertezze e povertà, dall’altro essa ha comportato un rinnovato pesante impatto sugli ambienti naturali, causando una nuova retrocessione delle foreste e delle specie ad esse legate. È questo il periodo di massimo conflitto tra gli allevatori e i grandi predatori selvatici.
Un pastore molisano conduce il proprio gregge durante la transumanza autunnale lungo uno degli ultimi tratturi ancora in funzione. Oggi ben poco rimane di una pratica che un tempo vedeva milioni di pecore condotte ogni anno a svernare nel Tavoliere delle Puglie.
Agli inizi del XIX secolo, assieme ad un rialzo delle temperature, anche l’abolizione della feudalità nel Regno di Napoli e la relativa nascita della proprietà privata, con le leggi eversive promulgate dal re Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, scatenano una nuova colonizzazione della montagna e un’ulteriore penetrazione dell’uomo fin nelle aree più selvagge dell’entroterra. In questi decenni, si torna a tagliare estensivamente i boschi, a cacciare la grande fauna, sino ad allora patrimonio dei signori, e a coltivare le terre anche in alta quota. Mentre l’indigenza di gran parte della popolazione di regioni come l’Abruzzo e il Molise, spinge intere famiglie a vivere in montagna, sfruttando grotte o semplici capanne come abitazioni e “rivendicando” le terre alla montagna, ovvero coltivando piccoli appezzamenti di terreno sui fianchi meglio esposti dei monti, magari dopo aver rimosso sassi e pietre e averne terrazzati i pendii. Gli enormi mucchi di pietre e le capanne a tholos che si ritrovano spesso nei pascoli appenninici risalgono proprio a questo periodo: silenziose testimonianze delle fatiche e delle speranze delle generazioni del tempo.
I resti di un antico stazzo abbandonato nel cuore dell’Appennino abruzzese. Ovunque si ritrovano testimonianze dello sfruttamento delle aree montuose scaturito in seguito all’emanazione delle leggi sull’eversione feudale.
Lo sfruttamento del territorio, la distruzione degli ambienti naturali e della fauna dell’Appennino Centrale sono proseguiti inesorabilmente sino al secondo Dopoguerra e, alla metà del secolo scorso. Ad esclusione del felice e straordinario caso dei Monti della Marsica e dell’alta Val di Sangro, che nel 1922, da riserva di caccia, divengono area protetta, quale primo nucleo del Parco Nazionale d’Abruzzo che poi si espanderà sino a toccare le regioni circostanti, gran parte del territorio appenninico dovrà attendere l’esodo massiccio dalle campagne verso i centri urbani e la fine della tradizionale economia rurale prima di riveder tornare i boschi sui pendii e la grande fauna a ricolonizzarli. È proprio a questo processo, il cosiddetto rewilding o rinselvatichimento, assieme alla protezione delle specie, su tutti i carnivori, ai progetti di reintroduzione di quelle estinte e, ovviamente, all’istituzione delle tante aree protette appenniniche, tra cui i Parchi Nazionali del Gran Sasso – Monti della Laga e della Maiella, quello regionale del Sirente – Velino e le riserve regionali, che si deve l’attuale condizione di eccezionale naturalità della regione e ricchezza di biodiversità.
Susseguirsi di verdi crinali montuosi dalla Riserva Regionale del Monte Genzana sino al cuore del Parco Nazionale della Maiella. La continuità delle aree protette appenniniche e l’efficienza dei cosiddetti corridoi ecologici tra gli ambienti a maggiore naturalità sono il presupposto per l’espansione della ridotta popolazione di orso marsicano.
Le vicissitudini storiche, complesse e stratificate dell’Italia centrale, unite alle peculiarità territoriali dell’entroterra appenninico, hanno gettato le basi per la nascita di un paesaggio ricco e variegato. Un mosaico ambientale di origine antropica, di recente reclamato dalla natura, che offre una grande varietà di ambienti e risorse trofiche per la vita di molte specie e che rappresenta una fascia di protezione delle ultime, preziose aree selvagge delle alte montagne, delle profonde valli e delle foreste più integre.
Resta a noi il compito di preservarlo e gestirlo in modo da evitare un’eccessiva uniformità ambientale e garantirne la produttività. Perché è proprio questo mix di natura e cultura a rappresentare il contesto d’eccezione in cui si può svolgere la storia meravigliosa degli orsi d’Appennino.