L’orso nativo
Un equilibrio fondato sullo scambio e l’alleanza
L’orso è un dio e, al tempo stesso, antenato, fratello, figlio, amico per molte culture circumboreali, che hanno vissuto di caccia e allevamento, a partire da miglia di anni fa fino anche ai nostri giorni.
Parliamo dei Sami, degli Ainu del Giappone e di gran parte dei popoli siberiani, come i Nivkh, i Kanti o i Ket, o dei nativi d’America, tra cui i Cree, i Beaver e gli Ojibwa. Ma sono in realtà moltissime le etnie che si sono relazionate con gli orsi nella vita reale e in quella simbolica. Le variazioni dei racconti, dei miti e delle leggende legate all’orso sono molte, come spesso succede nelle culture orali, ma credenze simili si ritrovano in tutti popoli suddetti.
Un racconto tradizionale ricorrente narra di una fanciulla, descritta a volte come indisponente, che si attarda nella foresta per raccogliere delle bacche. La fanciulla inavvertitamente calpesta un escremento di orso e impreca, trasgredendo alle regole di rispetto della foresta e dell’animale stesso. Viene allora avvicinata da un giovane affascinante, vestito di pelle d’orso. I due trascorrono l’estate e l’autunno insieme, nutrendosi dei cibi offerti dalla natura, e con l’arrivo dell’inverno trovano casa in una grotta. È solo nei lunghi mesi invernali che la fanciulla diventa consapevole delle vere sembianze del suo compagno. Dalla loro unione, a febbraio, nascono poi dei figli.
Ma ci sono storie anche di fanciulli o fanciulle rapiti da orsi sotto gli occhi della madre o di orfani presi sotto la protezione di un orso. Può essere un orso maschio, ma più spesso una femmina con i suoi cuccioli, a volte sotto sembianze umane, a prendersi cura dei giovani. Il finale di questi racconti sembra scontato, gli orsi sono cacciati e uccisi e gli esseri umani si ricongiungono al loro nucleo famigliare originale. Ma c’è un colpo di scena. L’orso ha poteri magici e non si fa mai cogliere alla sprovvista, perché sa leggere le intenzioni degli uomini. Prima di lasciarsi uccidere, l’orso rivela ai suoi rapiti o compagni umani le azioni rituali che dovranno eseguire in segno di rispetto per il dono ricevuto (la sua morte) e stringe con loro un’alleanza, conferendogli poteri e abilità per diventare grandi cacciatori.
Litografia della “Danza dell’Orso” tratta da un dipinto di George Catlin del 1835. In molte popolazioni native del Nord America venivano eseguite danze propiziatorie, nelle quali si indossavano maschere da orso e si imitava l’andatura dell’animale che ci si apprestava a cacciare.
L’orso e gli altri animali selvatici sono considerati superiori agli esseri umani sia da un punto di vista fisico che magico, ma tra di loro c’è una relazione di affetto e intimità
Da questi racconti emerge una visione del ruolo dell’uomo nella Natura molto diversa da quella della tradizione occidentale, legata alla cultura giudaico – cristiana o al pensiero cartesiano. Per queste culture, l’uomo non è al centro del mondo e la natura non è stata creata a suo uso e consumo. Per gli Ojibway e i Cree, ad esempio, il termine persona non identifica soltanto un individuo della specie umana, ma è “persona” una pietra, una felce, così come un orso o un qualsiasi altro animale. Tutti gli esseri animati e non hanno in sé una parte vitale e sono dotati di autocoscienza e capacità di comprensione e questo li rende capaci di comunicare tra di loro. Uomo e natura si incontrano su un piano che molto più vicino a quello della condizione umana, perché provano le stesse emozioni. Nella cultura totemica degli Ojibwa, ad esempio, sono gli animali ad avere creato il mondo. Gli animali sono considerati essenzialmente “umani” o meglio, un “altro” simile agli uomini, che appartiene alla stessa famiglia. Ogni famiglia o clan si vanta, tuttora, di avere avuto come capostipiti degli animali o di esser nato dall’unione fra uomini e animali. Tuttavia, gli animali sono anche strettamente legati al popolo degli spiriti che li protegge (gli spiriti della foresta o spiriti della selvaggina).
“Dipinto di orso, uccello e pesce” del pittore canadese Norval Morisseau (1932-2007), che, come molte sue altre opere, evidenzia le connessioni tra le diverse specie, sottolineando l’interdipendenza dei vari elementi della natura.
Per questo, la comunicazione con l’uomo non avviene direttamente, ma attraverso le preghiere, i canti, i sogni e i riti. Per i popoli Cree, gli spiriti vivono in un mondo parallelo a quello umano, nei loro villaggi “celesti”, possono cambiare il loro aspetto e inviano tra gli umani gli animali selvatici, come gli orsi, in qualità di messaggeri. Per questi popoli esiste una “società” selvatica che “funziona” più o meno come quella umana, sebbene sia più idealizzata. Gli animali, una volta uccisi, dovranno tornare nel luogo da cui sono originati. Per alcune culture, la foresta è considerato un “altro” mondo: diverso, terribile e affascinante allo stesso tempo; per altre, un ambiente spirituale e di rigenerazione che richiede una purificazione prima di accedervi. Per tutti si tratta di un luogo di incontri magici. Entrare nella foresta è un’esperienza epica, spirituale, magica e deve essere fatta con rispetto. L’uomo è consapevole che la natura può essere benevola, alleata, ma anche pericolosa o malvagia. Le relazioni con la natura possono cambiare in maniera anche imprevedibile, ed è il comportamento dell’uomo a determinarne la direzione. Per vivere in armonia con la natura, esistono delle regole, una morale, ma soprattutto rispetto. Ogni essere, ogni “persona” è legata all’altra da sottili connessioni e la rottura di queste può avvenire solo per un atto egoistico contro natura, che attirerà malanni e la vendetta degli spiriti.
Rami contorti di faggi secolari al crepuscolo. Da sempre nelle credenze e nella letteratura ricorre la foresta come topos, in cui si manifestano il magico e il soprannaturale.
Nella caccia è l’orso stesso che si offre, ma chiede di essere trattato come un “ospite” per consentire al suo spirito di ritornare tra gli spiriti, così da garantire che altri orsi vengano inviati agli uomini.
Le relazioni tra uomini e orsi sono per lo più benevole, quasi d’amore e addirittura seduttive. È quello che emerge dal cerimonialismo legato alla caccia all’orso. I riti venatori sono eseguiti da diversi gruppi etnici e presentano una grande quantità di variazioni su temi simili. La caccia si intraprende in autunno quando gli orsi sono grassi, oppure alla fine dell’inverno quando gli orsi vengono stanati dai loro ricoveri, o, nel caso di un orso che abbia ucciso ripetutamente il bestiame. La caccia è vissuta come un evento spirituale o magico, e non è mai casuale, perché è l’orso stesso che si offre. Pertanto questa richiede canti, preghiere, riti, offerte e una grande festa. Attraverso il cerimoniale, la vendetta degli spiriti viene placata e si avrà fortuna nella caccia, si eviteranno malattie, o attacchi di orsi alle greggi. Il rituale inizia prima della caccia e prosegue con l’atto dell’uccisione e fino al ritorno all’accampamento o villaggio. L’arrivo delle spoglie di un orso è festa per tutti. L’orso, dopo la morte, viene ospitato, accolto, nel sistema sociale degli uomini, smembrato e distribuito come cibo a tutti i membri dell’accampamento o del villaggio e ricomposto nelle ossa che verranno appese nella foresta per assicurare che il suo spirito ritorni nel suo luogo di origine, il villaggio degli orsi. Le ossa, nella cultura sciamanica siberiana, hanno il potere di rigenerarsi, di riformare il corpo vivente. L’orso è trattato come una persona, la gente si presenta al banchetto con offerte e doni (ad esempio riso e mirtilli), come si fa ai funerali o ai matrimoni. La condivisione del banchetto avviene secondo una precisa gerarchia che è descritta dal corpo stesso dell’orso. Gli anziani hanno più prestigio e hanno diritto alle parti migliori o magiche come la testa, la mandibola, il collo. Seguono il gruppo di caccia maschile e le donne sposate.
Scena cerimoniale legata alla caccia dell’orso tratta dal volume “Ezo Shima Kikan” (Viste Insolite dell’Isola di Ezo [Hokkaido]) di Hata Awagimaro, 1799, considerata l’opera più importante nel descrivere la vita contemporanea degli Ainu.
Per i popoli della Siberia, prendersi cura di un cucciolo d’orso è un rito propiziatorio per dimostrare agli spiriti che gli uomini sono buoni e garantirsi quindi protezione.
Tra i popoli Ainu del Giappone e quelli della Siberia orientale, sul finire dell’inverno, gli orsi vengono cacciati nelle tane con l’obiettivo di catturare dei cuccioli di orso. I cuccioli nati durante l’inverno vengono portati e accolti nel villaggio e allevati amorevolmente. Le donne in allattamento sono quelle che si occupano dei cuccioli e provvedono alla loro nutrizione, come se fossero i loro stessi bambini. Trascorso un anno, alla fine dell’inverno successivo, i cuccioli vengono uccisi seguendo un ben definito cerimoniale, con il proposito di inviare i loro spiriti alle montagne, a ritrovare la loro gente che vive in una dimensione parallela a quella umana. Durante la cerimonia, l’orso riceve doni e offerte (dolci di miglio, liquori e bacche). L’orso porterà i doni ricevuti agli spiriti, racconterà di essere trattato bene, e questo garantirà che altri orsi saranno invitati per sfamare il villaggio. Tra i popoli Ket dello Yenisey della Siberia centrale, al cucciolo viene preparata una stanza da letto vera e propria. I cuccioli sono adornati di bracciali e orecchini di rame. Dopo tre anni vengono liberati nella taiga, ma essendo riconoscibili non sono più uccisi, perché il loro ruolo è quello di messaggeri della bontà degli uomini.
L’orso è centrale nella cultura di questi popoli perché più di qualsiasi altro animale incarna la metafora uomo/animale ed è tra i più magici, ovvero uno di quelli con più poteri.
“Gli antenati indossano pelli d’orso” dipinto del pittore russo Nicholas Roerich, 1944. Nella raffigurazione sembra riecheggiare l’antica tradizione sciamanica dei popoli dell’Asia settentrionale.
Le informazioni etnografiche e i racconti indicano che l’orso era ed è considerato un animale dalle caratteristiche umane per diverse ragioni. La struttura delle zampe è simile a quella delle nostre mani e il portamento eretto è affine al nostro. Una volta scuoiato, poi, le caratteristiche anatomiche dell’orso ricordano molto quelle umane, in particolare di una donna. Orsi e uomini percorrono gli stessi sentieri, sono intelligenti e astuti. Le femmine sono amorevoli con i figli. Per questo, l’orso assume un ruolo totemico in molte culture, ovvero è considerato un antenato, un parente. Tra i popoli nativi, ogni membro del clan ha un suo animale totemico, e gli orsi, non a caso, sono gli animali guida per gli sciamani, erboristi e tutori dell’ordine pubblico. L’orso avrebbe il potere degli sciamani: prevede il futuro, ingaggia lotte magiche, canta, si trasforma e scompare, rivela formule magiche e ingredienti medicinali. Il suo potere raggiunge la massima potenza in tana, quando l’orso è in uno stato di morte apparente, tra sonno e veglia. Dall’interno della tana l’orso, dotato di un udito soprannaturale, sarebbe in grado di ascoltare tutti i pensieri degli uomini e constatare la veridicità dei loro giuramenti. Per questo, è meglio evitare di pronunciare il nome dell’orso, ma è preferibile usare circonlocuzioni: “l’arrabbiato”, “coda corta”, “signore della foresta”, “zampa di miele”, “padre”, “nonno”, “vecchio zio dei boschi”, “mangia miele”.
L’orso risorge dalla ibernazione, si rigenera dalle ossa appese agli alberi, è considerato un immortale ed un guaritore. Ogni parte del suo corpo è medicina per gli uomini. Essendo “sacri” gli orsi e la foresta sono considerati anche puri e innocenti. Nei popoli finnici, la gente credeva che un orso normale fosse sempre innocente, incapace di far male alle persone. Quello che attaccava o uccideva i bovini o le persone doveva essere stato “stregato”.
Scomparendo in inverno per riapparire in primavera l’orso scandisce le stagioni ed è la “porta” per accedere al mondo degli spiriti, oltre il cielo.
“Noi non abbiamo paura”, Nicholas Roerich, 1922. Sebbene la scena raffigurata sia ambientata in un contesto relativamente moderno, sembra accennare all’antica concezione che vede l’orso responsabile dello scandire delle stagioni.
In molte culture, l’orso è diventato simbolo del ciclo del tempo, del passare delle stagioni e della morte e rinascita della natura. Tutti i popoli della linea circumboreale hanno da sempre avuto una profonda conoscenza delle costellazioni, che venivano utilizzate appunto per seguire il passare del tempo. Tra i Micmac, esiste una leggenda che racconta di un orsa che esce dal suo lungo sonno invernale in cerca di cibo. Il primo animale a scorgerla è la cincia, che nel corso dell’estate e fino all’autunno arruola altri sei uccelli per uccidere l’orsa, liberando il suo spirito vitale che dormirà disteso con un altro orso. Quello che hanno scoperto gli etnologi è che tutti gli elementi di questa leggenda hanno un corrispondente stellare e seguono la rotazione delle stelle dell’Orsa maggiore nel cielo dalla primavera fino all’autunno. Secondo gli Oji-Cree, la costellazione delle Pleiadi, era denominata anche “la testa d’orso” e la sua posizione in cielo allo zenith annunciava agli uomini l’arrivo della primavera (che coincideva con l’uscita degli orsi dallo svernamento). Ricorrenza che si ritrova anche da noi, nella festa alpina della Candelora. Ma le Pleiadi erano anche considerate il foro del cielo, ovvero la porta di comunicazione con l’empireo, di cui l’orso era appunto un mediatore.
La costellazione dell’Orsa maggiore sovrasta la silhouette di un faggio secolare nell’Appennino Centrale. Il potere evocativo di queste sette stelle ha radici antichissime e ricorre in popoli e culture diversi.
Per molti popoli che hanno vissuto di caccia e allevamento, l’orso è stato considerato da sempre un alleato e meritevole di rispetto. Rompere un legame con l’orso è considerato un un atto di egoismo contro tutta la comunità.
Gli uomini che offendono gli orsi e la natura sono destinati a divenire orsi spettro e vittime di sofferenze e malattie, oltre che a portare con sé disgrazia e sventura.