L’orso appenninico

Storie di avventure, privilegi e identità

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Nel XVIII secolo le montagne appenniniche apparivano come un territorio aspro, selvaggio e poco raggiungibile, fatto di foreste impenetrabili, magnifiche, ma inquietanti agli occhi di un abitante della città.

Le vie di comunicazione che permettevano di attraversare la parte montana di Abruzzo e Molise, erano costituite da tratturi, mulattiere e carrarecce difficilmente percorribili dai mezzi dell’epoca, come carri e carrozze, e lo saranno tali per almeno un altro paio di secoli. Raggiungere queste località rappresentava un’esperienza avventurosa, per non parlare dei lunghi e proibitivi inverni e il rischio di essere depredati dai briganti o attaccati dalle fiere.

In questa immagine storica, risalente ai primi del ‘900, si possono vedere numerosi pascoli e coltivi ai piedi dell’Anfiteatro della Camosciara nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, oggi quasi completamente ripresi dalla natura e coperti da una folta vegetazione secondaria. (© Archivio Ente PNALM)

L’Appennino centrale non era una terra disabitata, ma accoglieva al suo interno una società agro-pastorale, fatta di pastori e agricoltori che si alternavano per utilizzare la montagna ai fini di un’economia di pura sussistenza, trasformando i ripidi pendii in campi coltivati a cereali e legumi, tagliando i boschi per creare pascoli e utilizzando le praterie più in quota per il pascolo degli animali nel periodo estivo. Era una terra anche di cacciatori e pescatori. Si cacciava per sostentamento, per procacciarsi carne e pellicce. L’attività venatoria era soprattutto a danno di lepri e diverse specie di uccelli, mentre lontre, faine e gatti selvatici erano ricercati per le pellicce. Si cacciavano i nocivi, ovvero lupi, volpi, mustelidi, per difendere le greggi, le mandrie e i pollai. In questa epoca sono apparsi i famosi lupari, pagati per sterminare i predatori a colpi di fucile, trappole e bocconi avvelenati. Tra l’altro la pratica di uccidere i nocivi è continuata fino agli anni ‘70 del secolo scorso. Infine, viene praticata la caccia grossa a specie non considerate nocive o di valore, piuttosto in cerca di svago, avventura e celebrità. Una volta estinti cervi e caprioli, il camoscio e, soprattutto, l’orso furono i protagonisti di questo tipo di attività.

In questa fotografia viene ritratto il momento dell’addio delle donne agli uomini in partenza con le proprie greggi per la lunga transumanza fino al Tavoliere delle Puglie. (© Archivio Ente PNALM)

Chi andava a caccia di orsi? Si trattava di un privilegio di poche famiglie facoltose, che quindi avevano tempo e risorse a disposizione per organizzare le battute, e di alcuni popolani locali particolarmente esperti e coraggiosi, che divennero celebri come “orsari”. Gli orsi venivano anche uccisi da qualche pastore in difesa del gregge. Secondo alcune testimonianze dell’epoca, l’orso era considerato un animale placido, quasi addomesticabile e timido, che se può evita l’uomo, ma dotato di una forza straordinaria e brutale, soprattutto se ferito, provocato o in difesa dei piccoli. L’orso non era considerato un nocivo, anche se poteva “rubare” qualche pecora dalle greggi. Ci sono delle fonti che sostengono che alcuni celebri abitanti della Valle del Sangro, nel corso della propria vita, hanno catturato o ucciso più di trenta orsi, alcuni con vere e proprie lotte corpo a corpo. Le uccisioni degli orsi, pertanto, erano finalizzate alla difesa del gregge o come sfoggio di forza e abilità venatoria.

Lo storico Luigi Piccioni ci offre una narrazione di come il rapporto complesso e contraddittorio tra uomo e orso si sia evoluto dal XVIII secolo ad oggi.

L’arrivo della monarchia nazionale e costituzionale, ovvero in primis del re Vittorio Emanuele II, segnò l’uscita dall’isolamento geografico di queste terre, grazie ad un miglioramento della viabilità, ma anche un cambiamento nella storia dell’orso in Appennino. Dietro pressione da parte di notabili e famiglie benestanti originarie della Valle del Sangro, in Abruzzo, in una parte del territorio che verrà compresa nel futuro Parco Nazionale d’Abruzzo, ai primi del secolo scorso venne istituita una Riserva di Caccia, la cui storia sarà tribolata e segnata da chiusure e riaperture.

Alla fine di una battuta di caccia, avvenuta ben prima dell’istituzione del Parco e della protezione delle specie, con macabra disposizione le teste di due orsi abbattuti sono circondate dai trofei di alcuni camosci appenninici. (Archivio Ente PNALM)

Le montagne appenniniche rientravano nel circuito delle cacce aristocratiche ottocentesche e l’orso divenne un atto di omaggio e di sottomissione da parte delle famiglie più influenti della zona per inserirsi in società e fare carriera politica. Donare la pelle o un cucciolo d’orso ai nobili o invitare i reali a condurre una battuta di caccia era considerato un segno di rispetto e affiliazione alla famiglia reale dei Savoia e a tutto il suo circondario. Un tema, quello del dono ai nobili, che ricorre dai tempi degli antichi Romani fino ai nobili del Medioevo. In Appennino, l’orso divenne quindi simbolo non solo di avventura, abilità e coraggio, ma anche di omaggio e privilegi.

Amedeo di Savoia-Aosta, il Duca delle Puglie e la sua preda, trofeo della battuta di caccia organizzata nel 1921. (© Archivio M.Mancini – Campobasso)

Con la fine dell’800, però, le valli montane divennero sempre più accessibili grazie all’apertura di strade, uno stravolgimento che avvenne in parallelo a quello dei costumi della società dell’epoca. Quella venatoria non era più la sola attività di svago, ma presero il sopravvento anche altre attività ricreative e sportive, tra cui l’equitazione, il tennis e il ciclismo, e la caccia fu sempre più praticata anche dal ceto borghese delle città. Fu soprattutto in coincidenza delle due chiusure della Riserva reale (1878, 1919), che, in assenza di vincoli e restrizioni, la caccia all’orso assunse il carattere di strage, a cui contribuirono sia locali che forestieri. L’orso, ovvero, torna ad essere liberamente cacciabile. Furono proprio questi gli eventi che indussero la nascita, a livello locale e nazionale, dei primi movimenti in difesa della natura. Questi, tra il 1921 e il 1922, portarono infine all’istituzione del Parco Nazionale d’Abruzzo. L’orso e il camoscio divennero due specie protette e, nel 1931, fu concessa l’ultima battuta all’orso, in onore del re. Contemporaneamente avviene un ulteriore cambiamento dei costumi della società: la caccia grossa scomparve tra le principali attività di svago e l’Appennino divenne centro d’attrazione per la pratica degli sport invernali.

Foto d’epoca che ritrae alcuni notabili e personaggi locali coinvolti nell’ultima battuta ufficiale di caccia all’orso nel Parco Nazionale d’Abruzzo, avvenuta nel 1931. (© Archivio M.Mancini – Campobasso)

Con l’istituzione del Parco, l’immagine dell’orso subì un’ulteriore metamorfosi per divenire motivo di orgoglio territoriale, attrattiva turistica e simbolo della conservazione e tutela degli animali, ovvero di un’area protetta: l’attuale Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Negli anni 70, “il mio amico orso”, ovvero l’orso seduto, diventa il simbolo ufficiale del Parco fino ai giorni d’oggi, rafforzando la familiarità simbolica con questo animale. A partire dagli stessi anni e in misura maggiora nell’ultimo decennio con la comparsa anche dei social media, si assiste ad una crescita sempre maggiore della sensibilità per l’ambiente e la sua protezione: l’orso diviene sempre più una questione pubblica, e quindi anche emotiva e politica, coinvolgendo non solo il mondo delle aree protette, ma anche quello della ricerca, dell’associazionismo e il pubblico generico.

Adesivo “il mio amico orso” messo in circolazione dal PNALM nei primi anni ’80, in cui lo slogan e il simpatico logo del Parco hanno contribuito alla nascita di una nuova immagine del plantigrado.

Il rapporto che gli abitanti dell’Appennino hanno intrattenuto con l’orso si è evoluto nei secoli. Al centro di questi cambiamenti è stato il rapporto complesso e anche contraddittorio con la caccia.

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